VILLA EMILIA

 

A.D.

 

Entra il padrone di casa, seguito dalla governante che porta un lucido vassoio con del formaggio e del vino e un pezzo di pane bianco, lo appoggia sul piccolo scrittoio ed esce silenziosa. L’uomo del mistero sveste il mantello, congeda l’accompagnatore con la barba. Restano soli ospitante e clandestino   di fronte. Il maturo proprietario di Villa Emilia, vestito di tutto punto con giacca e pantaloni di velluto nero e la camicia bianca di cotone pesante, i grossi scarponi ai piedi tradiscono le origini terriere del nobile e le continue camminate tra i campi scoscesi e brulli. La luce entra dalla finestra, illumina il   viso dell’uomo appena giunto. E’ giovane, non dimostra più di 25 anni, i tratti del viso, pur se tirati e stanchi, sono appena appesantiti da una leggera peluria incolta. Il pantalone e la giacca di lana pettinata sono di fattura italiana, così come le scarpe morbide e nere. I vestiti però risentono del viaggio, macchie di unto e grasso sono ben visibili. “Vi ringrazio per avermi ospitato Don M. Credo sia giusto presentarmi con il mio vero nome, poichè le credenziali della lettera che il mio accompagnatore vi ha dato sono chiaramente false"” Le frasi escono con facilità dalla bocca del giovane italo-americano, solo in prossimità dei verbi però la pausa è più lunga, per non storpiarli. "Mi chiamo Colosimo Giacomo, sono in viaggio da fine dicembre e spero di fermarmi nella vostra casa per qualche mese, fino a quando, calmate le acque, potrò rientrare in America, nella mia città Chicago. Sono il nipote di James Colosimo, il noto gangster o uomo d’onore come dite voi da queste parti, anche se ufficialmente i miei parenti gestiscono da anni uno dei più noti locali notturni degli Stati Uniti “Il Caffè Colosimo” a Chicago. Chiarisco signore che non sono un mafioso, ho studiato legge e stavo facendo il mio praticantato presso uno studio legale di New York. La guerra tra le famiglie Weiss-Ducci.-Capone-Colosimo, ha coinvolto anche me. Mio zio, James Colosimo, fratello di mio padre morto due anni fa, ha deciso che i maschi della famiglia estranei agli affari se ne stiano buoni   da qualche parte, per evitare vendette. Mia madre e le mie due sorelle sono rimaste, per loro non c’è pericolo”. Don M. ascoltando ha   intanto lavorato con cura la prima sigaretta della giornata, picchia sapientemente le estremità sulla scatola del tabacco e, senza accenderla, la tiene tra le dita. “Non voglio sapere i motivi del vostro viaggio e della   fuga. Voi siete qui perchè Don Stucci di Palermo mi ha chiesto di ospitarvi. Potete restare quanto volete, le uniche cose che vi chiedo, per la sicurezza vostra sono un cambio di abito, vi daremo vecchi pantaloni da lavoratore e delle camice pulite ma usate, e di non   allontanarvi dalla proprietà. I miei contadini vigileranno per voi, familiarizzate con i cani e chiedete a Ines, la governante, per i vostri bisogni. Io vivo solo, dopo la morte di mia moglie i due figli maschi sono a Roma e ci vediamo tre volte l’anno. E’ tutto”.  Entra Ines, con discrezione lascia sul letto più lontano due pantaloni di fustagno, due camice ruvide e un cappello di paglia. Le scarpe sono già in prossimità della porta. Si veste lentamente Giacomo, lascia la stanza prendendo al volo un pezzo di formaggio e attraversa il piccolo corridoio. Dall’alto delle scale guarda la campagna. I colori vivi della stagione buona sono tutti rappresentati. I piccoli rumori delle varie attività arrivano all’orecchio del giovane. L’uomo con la barba, complice del clandestino, parla con i contadini, si guarda in giro osservando i sentieri del terreno, la stalla, il porcile. Raggiunge i limiti della proprietà, aprendo le porte della casupola degli attrezzi. Giacomo respira l’aria di questa piena e ormai tarda mattinata, è quasi tranquillo anche se il solito brivido l’accompagna ricordandogli il nome che porta. A tavola gi argomenti sono lontani da ogni riferimento a persone o cose. Don M. ricorda le sue origini siciliane, Giacomo parla di New York, insistendo sulle strade e sui palazzoni, appena ha il sentore dell’attenzione del padrone di casa. La pasta con il sugo così densa e profumata diventa l’alimento più cucinato a Villa Emilia., con la piena approvazione degli ospiti che gradiscono. Passano le settimane, tutte uguali, il fuoco del camino è spento, la temperatura è più calda. Giacomo guarda dalla finestra il mare così grande e azzurro, spera di poterlo   riattraversare presto. Tutto procede per il meglio, fino a quando….

A fine Maggio una serata silenziosa e piena di odori accarezza nell’aia di Villa Emilia gli abitanti della casa, che godono parlando e bevendo un bicchiere di vino bianco. I cani passano dal gioco all’attenzione e poi improvvisamente corrono verso il sentiero in basso, scomparendo nel buio. Don M. invita gli ospiti a salire in camera, chiama uno dei due lavoranti e si fa portare un fucile a canna, la classica “lupara”. Giacomo apre la finestra dalla stanza buia, guarda verso gli alberi. Due colpi secchi di fucile rompono il silenzio. Il complice barbuto tira fuori il coltello a serramanico e invita al silenzio il giovane protetto. Don M. intanto è tornato, impolverato e sudato, il fucile è caldo. Ines bussa alla porta e invita i due uomini ad uscire. Nel salone dell’ingresso, su una vecchia coperta, uno dei cani della villa è steso, guaisce e rantola con il ventre aperto, il sangue esce ad ondate. Gli uomini si guardano in silenzio………

 

Nel prossimo numero

La Vendetta – III e ultima puntata