A.D.
Il caldo afoso preannunciava un Giugno torrido per l’estate
del 1930. La mattinata a Villa Emilia è iniziata con la sepoltura di uno dei cani
di Don M. Nella stanza degli ospiti il padrone di casa commenta l’episodio
della sera precedente con Giacomo, e non si trincera dietro spiegazioni di
comodo. L’amico barbuto tende l’orecchio ai discorsi ma non smette di osservare
la campagna dalla finestra. “Mio giovane ospite, la lama che ha squarciato la
pancia del mio cane, voleva darmi un avvertimento. Non è stato un tentativo di
furto finito male per l’intervento degli animali da guardia. Qualcuno sa di
voi, conosce il cognome che portate, il viaggio che avete fatto ha lasciato
qualche traccia di troppo. Presumo che a Palermo un orecchio, un occhio, ha
sentito e visto. Le amicizie che la famiglia Colosimo vanta in Trinacria sono
tante e i nemici non vi mancano. Ora sappiamo che loro sanno”. Giacomo si
avvicina all’amico con la barba, mette la mano sulla sua spalla e sussurra: “Io e Don M. usciamo nell’aia a parlare,
stenditi, cerca di riposare, questa notte non hai chiuso occhio. Per difendermi
devi essere sveglio e pronto”. Ines esce dal pollaio con due uova e li
offre ai due uomini che camminano lentamente nell’ampio cortile. Giacomo
annuisce ringraziando – “Don M. per la vostra sicurezza, della governante e dei
due uomini che sono al vostro servizio, devo lasciare questa casa al più
presto, non posso approfittare della vostra bontà”. Il nobile uomo poggia il
dito sulla bocca del giovane rampollo dei Colosimo. “io sono un uomo d’onore,
ho dato la mia parola a Don Stucci di Palermo che voi resterete in casa mia
fino a quando non arriverà notizia che
sono sciolto da ogni vincolo nei vostri riguardi. La mia carne ha valore se la
mia parola vale”. Il tono perentorio non ammette replica – “ho mandato uno dei
miei lavoranti a Monteleone, stasera arriveranno tre giovanotti svegli e
capaci. Resteranno a Villa Emilia il tempo necessario. Prendete, intanto, uno
dei miei fucili per vostra difesa”.
Quel giovane vestito da contadino con il cappello di paglia
in testa e il fucile a tracolla, non somiglia nemmeno vagamente al neo-avvocato
di New York che sogna aule di tribunali lontano dai clamori e dagli impicci
della sua famiglia. Sul tardi appena buio, il lavorante di don M. fa strada a
tre giovanotti armati fino ai denti che scendono dalla collina di fronte a
Villa Emilia, tenendosi opportunamente lontani dalla strada. Giacomo è seduto
sul letto, legge avidamente un giornale vecchio di una settimana. La crisi
economica mondiale è ancora presente sulle prime pagine. Poi attentamente cerca
notizie “americane”, ma si deve accontentare di piccoli trafiletti di poco conto.
L’amico barbuto, dall’angolo del forno di pietra, osserva i tre uomini, le loro
armi. Don M. con ampi gesti mostra la proprietà, indicando i punti più lontani
che devono essere controllati. Uno degli uomini si stacca dagli altri e
lentamente si avvicina alla scala che portano al piano alto. Il guardaspalle di
Giacomo non perde un movimento, lascia la penombra e sale il primo gradino
della scalinata. Il tipo ha superato l’uscio del corridoio che precede gli
ambienti della casa. La porta della camera del giovane Colosimo è socchiusa.
Giacomo ha lasciato il giornale e, spalle all’ingresso, cambia la camicia prima
di scendere per la cena. L’estraneo allunga il piede e apre la porta senza fare
rumore. Il fucile a canna scivola dalla spalla e si posiziona nelle mani, il
dito pronto sul grilletto.
Il gemito è percepito da Giacomo appena il coltello a
serramanico non trova ostacoli nelle costole del sicario. L’amico fidato non si
è fatto sorprendere e lascia quel corpo afflosciarsi senza vita. Per sicurezza
l’arma viene sospinta a qualche metro. In silenzio i due uomini ridiscendono le
scale con i fucili spianati, Giacomo gira intorno alla casa, l’uomo con la
barba affronta direttamente il pericolo. I due di Monteleone vengono disarmati,
spogliati e senza scarpe legati all’interno del capanno, lontano dal cortile.
Nessuno saprà niente di loro. Il povero lavorante di Don M. in ginocchio bacia
le mani del suo padrone, chiedendo perdono per l’errore commesso, giurando e
spergiurando sulla sua buona fede.
Nel Dicembre del 1930 Giacomo Colosimo lascia
definitivamente l’Italia per l’America. Diventerà un buon avvocato, esperto in
diritto internazionale, con la sua famiglia avrà sporadici contatti, nelle
feste comandate. La sua ombra con la barba rientra a Chicago, un articolo di
cronaca dell’Agosto 1933 segnala la scomparsa di Antonio Caronte della famiglia
dei Colosimo, l’esperto cronista ipotizza che il suo corpo chiuso in un sacco
di tela, riposi in fondo all’oceano. Don M. è riuscito a morire nel suo letto,
nei possedimenti intorno alla Conca D’oro di Palermo, confortato da figli e
nipoti. Ines, la governante è rimasta in Calabria e conclude la sua esistenza a
Palmi dalla sorella. Il lavorante di Don M. ha vissuto con il rimorso di aver
sbagliato e peggio di aver perso la fiducia del suo padrone. Col passare degli
anni la sua mente è volata via tra sospetti e pensieri fissi. Uno, in
particolare. Dice in giro che Ines la governante ha tradito. Si, lei, così
amorevolmente servizievole, covava il sogno segreto di diventare la nuova
moglie di Don M., ma il nobile siciliano aveva decisamente rifiutato. Nel Marzo
del 1964 un maturo paziente del manicomio di Girifalco fugge a piedi tra gli
ulivi di Maida e raggiunge il 26 dello stesso mese la campagna intorno a Villa
Emilia. Una donna matura è impegnata nelle faccende domestiche. L’uomo in preda
ad una crisi violenta trova un’ascia e colpisce mortalmente la povera e
incolpevole donna. Fine della storia
A Maggio la prima puntata de “Le Quattro Anime”