www.pizzocalabro.it di Giuseppe Pagnotta ORLANDO ACCETTA SCRITTORE, POETA E GIORNALISTA
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Prodotti e piatti tipici della nostra terra Il rito della salsa di pomodoro di Orlando Accetta Società del 2000, società evoluta, società civile, società post-industriale. Non c'è azione umana che non viene regolata e condizionata dallo sviluppo tecnologico e dall'informatica e forse non si esagera quando si afferma che si sta arrivando al punto in cui è la macchina che controlla l'uomo e non viceversa, per come sarebbe più giusto che fosse. Non c'è da stupirsi più di tanto se ben si considera il tempo che stiamo vivendo, caratterizzato da un’insensata campagna terroristica di secolarizzazione e disumanizzazione a ogni livello. Eppure, nonostante tutto, continua a perpetuarsi, specialmente nei piccoli centri della Calabria, l'antico e romantico rito della produzione artigianale e casalinga della salsa di pomodori. A Pizzo, fino a qualche decennio addietro, subito dopo ferragosto e fino a tutto il mese di settembre, ogni piccola via e ogni vicolo erano animati, fin dalle prime luci dell'aurora, da un sommesso e continuo cicalio delle brave massaie che, aiutate dai figli e dalle vicine, che poi venivano puntualmente contraccambiate, preparavano tutta l'attrezzatura occorrente per fare “i buttìgghji”, cioè la salsa di pomodori in bottiglia che poi sarebbe stata consumata durante l'inverno. Similmente alle laboriose e piccole formichine, le mamme pizzitane si davano da fare per risparmiare qualche soldo, utile per altre spese per garantire ai componenti della propria famiglia un prodotto assai genuino, saporitissimo, lavorato con ogni cura, non sottovalutando pure l'aspetto igienico. Gli attrezzi principali, che sarebbero serviti per parecchi anni a venire e che spesso erano di proprietà comune di più famiglie, erano un grande e robusto tripode di ferro battuto, accuratamente preparato da bravi «forgiàri» locali, senza l'uso della saldatura; una "caddàra" (caldaia) di rame stagnato di media dimensione, che sarebbe servita per fare "scaddàri" (scaldare) i "pumadòra"; una buona catasta di legna da ardere, tra cui non dovevano assolutamente mancare almeno due "zzucchi di castagnara o di cerza" (ceppi), che sarebbero serviti per sostenere e alimentare la fiamma iniziale: essi erano "a ligna 'i sostanza", una certa quantità di paglia per separare tra di loro le bottiglie, o, in mancanza, un po' di "mappìni vecchji" (strofinacci) ma puliti; una caldaia grande per far bollire a bagnomaria le bottiglie della salsa e che in genere si ricavava tagliando con lo scalpello un fusto di olio industriale o di nafta; poi, recipienti di varia natura e grandezza, la macchinetta a mano per passare il pomodoro, i tappi di sughero, la macchinetta per i tappi di sughero, qualche gomitolo di spago per legare i tappi e... naturalmente i pomidori. Quest'ultimi venivano "ordinati" in tempo utile presso "u foritànu" (il contadino) di fiducia, che di norma era sempre lo stesso ogni anno, salvo qualche poco probabile fregatura. Incominciava la festa, faticosa ma allegra, spensierata, semplice e piena di armonia. La catena di montaggio aveva inizio con la separazione dei pomodori più duri da fare a "pezzetti", da quelli più maturi da destinare per la salsa e, quindi, con il loro accurato lavaggio. A questo rito non potevano mancare i piccoli e gli anziani (maschi e femmine): anche per loro c'erano precisi compiti da svolgere. I piccoli erano normalmente destinati a mettere "u vasilicò" (il basilico) dentro le bottiglie ancora vuote, mentre agli anziani spettava prevalentemente l'incombenza di tappare col sughero le bottiglie e di legare i tappi con lo spago; operazione quest'ultima di non facile esecuzione e che richiedeva un vero esperto. Ogni massaia, che era colei che dominava e dirigeva il rito, aveva un suo metodo di lavoro ('a riggètta) che più delle volte custodiva gelosamente. I metodi usati sono riassumibili in numero di tre: 'i pumadòra c"a medicina; 'i pumadòra gugghjùti; 'i pumadòra c"a frevi. Il primo metodo consisteva nell'utilizzare i pomodori crudi, mischiati con una certa quantità di "medicina" (un grammo di acido salicilico per ogni chilogrammo di pomodori). Il secondo, che poi era il più usato e il più sicuro, consisteva nel fare bollire "i buttìgghji" a bagnomaria per almeno mezzora. Il terzo metodo, il più difficile e il più rischioso come risultato se non fosse stato eseguito da mani davvero esperte, consisteva nel riempire le bottiglie quando la salsa era ancora bollente, tappandole immediatamente e poi lasciandole sotto alcune coperte di lana per almeno ventiquattro'ore (normalmente sistemate sotto il letto). Quello «d"i buttìgghji» è uno dei pochissimi riti che ancora durano ai nostri giorni, anche se poche sono le famiglie che si prendono la briga di sobbarcarsi un onere così pesante e scomodo, seppur piacevole. Ormai ci sono le industrie che con pochi soldi garantiscono il rifornimento nei supermercati. Certo, però, non è garantita la genuinità, la naturalezza, il sapore e... la poesia di uno stare insieme con allegria e spensieratezza. Per quelle poche famiglie che ancora insistono in un lavoro che va scomparendo (insieme al rito dell'uccisione del maiale e della spillatura del vino), le operazioni sono alquanto facilitate. Infatti, al posto della macchinetta manuale c'è quella elettrica, al posto della legna c'è il fornello a gas, al posto della via e del vicolo c'è il garage o la campagna, al posto dei tappi di sughero ci sono i tappi a corona ('i tappi 'i birra). È romanticheria? È folclore? È perdita di tempo? Di certo fare "i buttìgghji" è sempre una festa.
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