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ORLANDO ACCETTA

SCRITTORE, POETA E GIORNALISTA

 



Articolo apparso su “La Lanterna” del 1924

Pasquale Enrico Murmura

(Poeta)

di Orlando Accetta

Pensiamo di fare cosa gradita ai suoi discendenti, agli studiosi di letteratura, agli uomini colti di Vibo Valentia e circondario, nel riportare un articolo di F. P. Mulè, apparso sul numero 10 del settimanale politico-letterario “La Lanterna”, edito a Pizzo il 10 settembre 1924 e stampato dalla Tipografia G. Passafaro di Monteleone, con direttore responsabile Michele Capria, di cui riportiamo anche la premessa.

“È morto un poeta: Pasquale Enrico Murmura.

Di questo ventenne nostro conterraneo, orgoglio dei suoi e splendida promessa della nostra terra, e dell’Italia, non sappiano meglio parlarne di come ha fatto F. P. Mulè nel “Mondo”, del 19 u. s. Mentre pertanto produciamo il proprio uscito dalla penna dello scrittore siciliano, inviamo alla famiglia dello estinto ed al congiunto On. Molè, l’espressione delle nostre più vive condoglianze”.

«Aveva una voce che ricordava le note gravi dell’usignolo, pastosa, flautata, calda come il lume raccolto dei grandi occhi neri. Veniva dalle Calabrie misteriose e subiva profondo il fascino di Roma. Di Roma antica, alla quale sapeva elevarsi dimenticando le piccine cose e gli uomini piccini del tempo nostro: la Roma di Numa, o di Virgilio. E qui egli desiderava stabilire la sua dimora, avendo trovato qui soltanto, fra i fantasmi del mondo latino, ritmo ideale adeguato al suo pensiero e ai suoi sentimenti. Era del sogno: ne animava i luoghi e ne respirava. Spesso, ragionando di storia civile o letteraria o di arte, mostrava ignuda la sua coscienza, una coscienza salda, casta e tersa, che si veniva manifestando con semplicità luminosa nel modo di giudicare uomini, fatti ed opere: giudizii pieni di maturità e di saggezza che solo pochi privilegiati riescono a formulare in età giovanile.

Era di precocissimo ingegno Pasquale Enrico Murmura. Ne segno il nome con non so che brivido di rispettosa tenerezza, perché lo ebbi più d’una volta, nella quiete de’ miei libri, e mi svelò nella sua perfezione morale, nel suo intelletto gagliardo e nutrito, nel suo puro ardore di bellezza. Poeta. E però senza la spavalderia dei mediocri, pudico anzi e quasi timido. Come tutti coloro che sanno la luce delle altitudini, ma considerano sgomenti la fatica delle ascensioni ed esercitano giorno per giorno i muscoli all’arduo cimento.

Le sue attitudini ideali si chiamavano Leopardi, Dante, Virgilio; ma più specialmente Pindaro, Eschilo, Omero. Era greco. Del nostro tempo, ma greco, perché vedeva nell’Eliade la purezza non più superata dell’arte. Desiderava tradurre tutto Pindaro. Aveva già cominciato, credo. Conosceva la bella traduzione di Ettore Romagnoli, ma voleva tentare anche lui. Ne sentiva il bisogno. Consaguineità lontana, forse. Diceva che la nuova luce sarebbe venuta dal Mezzogiorno, attraverso i germi supertesti della Grecia madre. Roma, in verità, laggiù non riuscì mai a cancellare le tracce fulgide di Atene. Mi diceva che ne avrebbe scritto.

Ignoro se di queste cose avesse parlato anche con Gabriele D’Annunzio. So che Gabriele D’Annunzio riponeva su lui grandi speranze e che lo desiderò e lo ebbe alcun tempo suo ospite.

Giudice sapiente, ne aveva sorpreso le possenti virtù di poeta in un’ode di colore e suoni meravigliosi. Il verso era già perfetto, perfetta l’onda della strofa. Straordinarie le virtù a dipingere, a scolpire con la parola. Si avvertiva la simpatia letteraria pel D’Annunzio, ma a chi sapesse scender dentro, si rivelava – colori, trapassi, voli – l’innamorato di Pindaro.

Ed è morto. Chi non lo conobbe non può immaginare quel che egli si è portato nella tomba. Io sono dei pochi che lo sanno e non so vincere il mio dolore, perché non potrò più rivederlo e per quel che è mancato alla letteratura e alla poesia italiana. È morto per malattia di cuore. Lo aveva affaticato troppo, con la tenacia dello studio e la vastità del sogno. Pasquale Enrico Murmura aveva venti anni...».

Pasquale Enrico Murmura

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 Giuseppe Pagnotta

 

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