www.pizzocalabro.it di Giuseppe Pagnotta ORLANDO ACCETTA SCRITTORE, POETA E GIORNALISTA
|
di Orlando Accetta Sorvolo a parlare intorno alle origini di Pizzo, che qualcuno vuole sia l'erede dell’antica città di "Napitia" o "Napetia", fondata dai Focesi, sorta sulle sue rovine e sullo stesso sito, cioè su quello sperone roccioso che si proietta a mare come una nave ancorata in un porto. E ciò anche perché per dipanare la "matassa" in modo convincente e conclusivo non ci sono riusciti neanche cultori di storia regionale del calibro di Gabriele Barrio di Francica (Antichità e luoghi della Calabria), Ilario Tranquillo di Pizzo (Istoria Apologetica dell'antica Napizia), Raffaello Molè di Polia (Fasti e Nefasti della Città di Pizzo). Chi in seguito ha provato a dissertare sull'argomento ha potuto soltanto fare ricorso alle argomentazioni del Barrio, del Tranquillo o del Molè, essenzialmente. Di certo si può affermare solamente che i primi a stabilirsi nel luogo dove oggi sorge l'incantevole cittadina calabrese, che si affaccia sul Golfo di Sant'Eufemia Lamezia, sono stati alcuni monaci basiliani (appunto dell'Ordine di San Basilio) che, intorno all'anno 1363, quivi diedero mano alla costruzione di un monastero, sorto proprio sulla stessa superficie che attualmente risulta essere occupata dall'edificio scolastico delle Scuole Elementari e dal palazzo appartenente alla famiglia Musolino, nei pressi di Piazza della Repubblica. In seguito, intorno al 1380, essendo Signore di Mileto, e, quindi, anche del territorio di Pizzo, Enrico Sanseverino, si diede inizio alla costruzione di un nuovo villaggio adeguatamente fortificato. Ed ecco il Barrio: "Presso il mare si trova la cittadella di Pizzo, a picco sul mare: dista da Eufemia (Sant'Eufemia Lamezia, che, insieme a Nicastro e Sambiase, oggi forma l'unico Comune di Lamezia Terme) diciottomila passi (circa 25 km). Questa cittadella fu fondata perché fosse tolta ai pirati la possibilità di depredare i navigli che passavano di là: infatti, qui c'è un recesso nel quale i pirati si nascondevano. Qui si prendono i tonni con la draia. Gli abitanti chiamano questo luogo Segiòla". Una delle innumerevoli ragioni per cui sicuramente il piccolo villaggio si andò, poi, sempre più sviluppando, demograficamente ed economicamente, fu senz'altro rappresentata dall'abbondanza delle acque "fresche e cristalline" che irrigavano, e irrigano, il territorio, da oriente a occidente, per tutta la sua estensione, da renderlo fertilissimo e abbondevole di ortaggi e di frutteti di ogni specie. Ilario Tranquillo cita la presenza di circa ottanta sorgenti esistenti ai suoi giorni (1725), di cui cinquanta a oriente e altre trenta a occidente. Qualcuno ha voluto finanche tentare di darsi una plausibile spiegazione per quest’abbondanza di sorgenti, pur non avendo, ai fini pratici, alcuna importanza. Comunque, alcuni hanno ritenuto che tutte quelle fonti fossero originate da un ipotetico "fiume sotterraneo" che, passando attraverso i Colli a monte di Pizzo, andasse a riversarsi a mare nascostamente. Altri, invece, hanno sostenuto che le sorgenti fossero originate da una ben definita e unica grande sorgente, che tuttora trovasi sul pianoro detto "Chjàna d"i Scrisi", piana degli Scrisi (nome storpiato, potendo essere originariamente, supponiamo anche se non ci sono prove a riguardo, "Crissi", per "Crissesi", cioè abitanti di "Crissa", antichissima città sorta su un promontorio di quel pianoro, detto appunto Piana degli Scrisi, ovvero, Piana dei Crissesi o Piana di Crissa. Per altri ancora vorrebbe significare Piana delle ortiche). Volendo significare che l'acqua di questa fonte, così abbondante, spargendosi, poi, nei sottostanti Colli attraverso varie ramificazioni sotterranee, si distribuisse per tutto il territorio di Pizzo.
Maierato – Piana degli Scrisi Ma, per come poco prima si diceva, scarsa rilevanza ha stabilire il "perché" di una così copiosa presenza di sorgenti di acqua potabile, ed in modo così esteso. È, al contrario, oltremodo importante evidenziare che, oggi, per l'incuria e il malgoverno delle varie amministrazioni locali che si sono avvicendate dal secondo dopoguerra a questa parte, a Pizzo non esiste più una sola sorgente cui attingere il prezioso liquido per dissetarsi, e questo è davvero il colmo. Nella parte orientale della cittadina, in località "Prangi", percorsa a monte da quel tratto della strada statale 522 che costeggia la zona fino alla "Marinella", nuovo rione che si presenta come un pugno negli occhi per il suo disordinato e obbrobrioso intreccio di casermoni, sorti senza alcuna regolamentazione urbanistica ed estetica, se non proprio in modo abusivo, si può tuttora ammirare una "Grotta" naturale, scavata nella roccia tufacea, a pochissimi metri dal mare, che fino a non molti anni addietro, quando per spostarsi si usavano le gambe, era una delle spiagge più frequentate, "appellata, Centofontane dalle cento vaschette...che ravvisansi incavate naturalmente alla base dello scoglio contenenti quale acqua salsa e quale acqua fresca potabile", per come scrive Gianni Mele nel suo libercolo "I bagni di mari del Pizzo", stampato a Napoli nel 1846.
Cendufundàni Il Tranquillo, nella sua "Istoria Apologetica dell'antica Napizia", uscita a Napoli nel 1725, nel tessere le lodi di queste sorgenti, ne elenca varie caratteristiche. La prima di esse, veramente incredibile e rara, consisteva nel fatto che molte erano formate da acque amare e salate, che venivano usate per la salamoia, e molte altre dolci, e, benché tra di loro vicinissime ed alternate, mai le dolci si travasavano nelle salate o le salate nelle dolci per un "ordine mirabile della natura". Se, poi, per una forza esterna, avveniva che una sorgente di acqua salata si andasse a versare in un'altra dolce, ciò nonostante questa conservava la sua caratteristica di sorgente d'acqua dolce, mai perdendo la sua primitiva qualità. Né alcuna influenza esercitavano le onde del mare che penetravano nella "Grotta" allorquando c'era tempesta: le acque dolci rimanevano sempre tali. Inoltre, ed era caratteristica dall'aspetto davvero arcano, le sorgenti che quest'anno facevano sgorgare acque dolci, l'anno successivo originavano acque salate, e viceversa. E mentre alcune vasche si rivelavano asciutte, altre si mostravano stracolme di acqua (salata o dolce), anche nella stessa giornata e con alternanza. L'ultima "meraviglia" consisteva nel "non sapersi, onde traggan l'origine l'acque così salse, come dolci già mentovate". Potendo escludere, a priori, tra le varie ipotesi fatte, che le fonti non possono essere originate dalle acque piovane, perché queste sono dolci e non salate ed anche perché non possono stagnare sopra la "Grotta", che è alquanto scoscesa. Né, d'altronde, è credibile l'altra ipotesi per cui le sorgenti siano dovute all'influenza esercitata dalle acque del mare, durante le tempeste, considerato che esse sono salate, mentre le sorgenti sono quali salate e quali dolci, alternativamente di anno in anno. Ad appena pochi metri dalle sorgenti di "Centofontane", proprio sugli scogli a mare, ma accessibile anche dalla spiaggia sebbene con qualche difficoltà, si trova, anche se ormai quasi distrutta, la "Grutta d"i Vòi", ovvero la "Grotta dei Buoi", così detta, si presume, per la presenza nel suo interno, notata da qualcuno, dei "buoi marini", cioè di foche della specie "monachus monachus", simili a quelle che vivono nella "Grotta del Bue Marino" che si trova sulla costa rocciosa del golfo di Orosci nella Sardegna Orientale, tra il centro balneare di Cala Genone e la foce del rio Codula di Luna. All'interno, e da più parti tutt'intorno a essa, scendeva acqua, di cui una parte cadeva al suolo e un'altra parte restava pensile in forma condensata, a causa della permanenza dell'umidità. Ed ecco, a tal proposito, quello che scrive il Barrio: "Vogliono taluni, che cotal umor condensato abbia di nitro natura. Sostengono altri ciò non essere vero, e però affermano, che abbia non di nitro, ma di salnitro le qualità". Degna di annotazione, poi, è la sorgente che sbocca nella spiaggia della "Seggiòla", direttamente dalla roccia che la sovrasta alle spalle, dove risulta sorgessero un mulino, una tonnara, un follatoio o gualchiera (impianto meccanico azionato dall'acqua che un tempo serviva per lavare e rendere compatti i panni). Ed ecco ancora il Barrio: "Infatti la copia delle acque intorno al Pizzo è molto grande, e quindi è che nelle rive della Seggiòla marittima, allo incontro del Molino della Corte, ch'è presso il mare, vedeasi nel 1750 una Gualchiera, che per concio dei panni serviva, siccome in scrittura anteriore ho letto".
Seggiòla A questo punto è importante evidenziare non soltanto l'abbondanza delle sorgenti sparse per tutto il territorio di Pizzo, dal monte al mare e da oriente ad occidente, ma anche, e soprattutto, il fatto che esistevano, e tuttora esistono, due sorgenti con "acque medicinali", tali da curare varie infermità. Lo annota il Barrio, lo evidenzia il Tranquillo e lo ripropone il Molè citando anche il Mirafioti. Inoltre anche oggi queste fonti sono bene attive e copiose, nonostante siano state completamente abbandonate dalle varie amministrazioni che si sono succedute al Comune di Pizzo, ma che sono state danneggiate anche a causa delle speculazioni edilizie operate nei meravigliosi orti che sorgevano nella zona alta a monte di via San Sebastiano e di Via Nazionale, nonché sul costone a destra della "Vallisdea" (Burrone dei Morti), denominato "Parrera", da dove fuggì alla "Marina" il re di Napoli Gioacchino Murat, prima di essere preso prigioniero e, quindi, condotto nel castello aragonese. "Sorgesi adunque in una Vallicella à canto al Borgo Orientale (Borgo di San Francesco, che prende ilo nome dall'omonima chiesa intitolata a San Francesco di Paola) del Pizzo un Fonte, la di cui acqua per due canali correndo, è ferrigna, e le sue varie virtù sono a tutti note, anche a' Forastieri: onde divolgata la sua fama, trasportati in lontani Paesi, e a' tempo mio il Reggente Ortiz se ne portò a Napoli buona copia". Così scriveva il Tranquillo. Essa è la cosiddetta "Fontanavècchia", dal 1866 chiamata "Fontana Garibaldi", allorquando fu abbellita con una decente facciata di granito. L'acqua che scorre dalla "Fontanavècchia" è del colore del ferro, che ben s'appalesa all'occhio, soprattutto se si fa un po' depositare in un bicchiere o in altro recipiente trasparente. Anche il suo singolare sapore è ferroso, quindi probabilmente poco gradevole per il palato di chi non è aduso a gustarla, ma non questo essa perde le sue qualità di potabilità e curative. Vale la pena riportare integralmente quanto scrive il Sàvaro, nella traduzione dal latino fatta da Raffaello Molè: "Presso le falde medesime del monte, dentro la cavità di una vallicciuola, scaturisce una sorgente di acqua ferrata, ma vantaggiosamente usata sia dai cittadini che dai suburbani. Appena attinta ha sapore ferroso, ma lasciata in riposo perde ogni sapore e si rende graditissima al gusto. È di grande efficacia se si dà agli ipocondriaci e agli ammalati di milza. Divulgata la virtù di questa acqua dalla diuturna esperienza di chiari medici, molti si studiano di importarla altrove, con l'intento di darla in uso di pozione in si fatte malattie. Mescolata col vino, non perde le sue qualità e, così, bevuta, abbiamo imparato a curare l'ascite agli idropici". È certo che la "Fontanavècchia" esisteva almeno alla data del 1571, anno in cui il Barrio pubblicò la prima edizione della sua monumentale opera "Antichità e luoghi della Calabria": "...c'è a Pizzo un'acqua ferraginosa che tuttavia può essere bevuta". Quest'acqua, un tempo, veniva anche esportata, arrecando non pochi vantaggi economici alle popolazioni pizzitane, essendo medicamentosa per le malattie della milza, del fegato, nei casi di mancanza di ferro nel sangue e nelle crisi depressive.
Fontanavècchja Altra fonte rinomata, ad Occidente (Borgo della "Marina"), poco lontana dal mare e tuttora esistente, è quella che oggi viene detta "Fundàna d"u Macellu" (Fontana del Macello), così chiamata in quanto, fino ad alcune diecina di anni addietro, di fronte ad essa si allogava il Mattatoio Comunale, successivamente demolito per far posto alla costruzione della Pretura Mandamentale, e, quindi, trasferito opportunamente altrove in luogo più idoneo e lontano dal centro abitato.
Fontana del Macello Ed ecco la descrizione del Sàvaro, per come riportata dal Molè: "Sul lido Occidentale dove vi è il monastero di S. Agostino, erompe dalla stessa falda del colle una sorgente, che è condotta con tubi, or sotterranei ora esterni, nel serbatoio del tempio, e più in basso, in quello del borgo, dando graditissima acqua agli abitanti. Quest'acqua è ottimo farmaco per i sofferenti di mal di reni". Pure l'acqua di questa sorgente veniva esportata, come quella della "Fontanavècchia".
|
|