LA STORIA
Gioacchino Murat salì sul trono di Napoli nel 1808, durante il periodo
cosiddetto del “decennio francese”, dopo che re Giuseppe, fratello di Napoleone,
venne chiamato
dall’onnipotente
congiunto a cingere la corona di Spagna. Tenne il Regno per soli 6 anni, finchè
i Borboni non riuscirono a recuperarlo alla loro dinastia l’ 8 giugno 1815. In
quel giorno Giacchino, accompagnato da pochi fedelissimi si allontanò dalla
città partenopea, per non cadere in mano ai soldati di
Ferdinando IV di Borbone. Si
rifugiò ad Ischia e da lì raggiunse la Francia. Non si diede per vinto, anzi
preparò in poco tempo una spedizione per impossessarsi nuovamente del regno.
Nell’ottobre del 1815 partì alla volta della Corsica, e da qui diresse verso il
Salernitano, dove sperava
con l’aiuto delle masse di marciare alla volta di Napoli. Una tempesta, però,
sconvolse i suoi piani: le navi furono spinte a sud; alcune approdarono a San
Lucido, vicino Cosenza; quella che trasportava il sovrano venne sospinta nelle
vicinanze di
Pizzo.
Senza perdersi d’animo Gioacchino volle ugualmente sfidare la sorte e con pochi
uomini a disposizione sbarcò sulla spiaggia Napitina, confidando di recarsi a
Monteleone, la cittadina che egli aveva elevato a rango di capoluogo di
provincia, e dove sicuramente avrebbe trovato numerosi adepti. Nelle strade di
Pizzo il drappello del re – era la Domenica dell’8 ottobre 1815 – venne
intercettato dalla Gendarmeria Borbonica al comando del
Capitano
Trentacapilli,
che arrestò l’ex re e lo fece rinchiudere nelle carceri del locale castello.
Informato della cattura dell’ex sovrano, il Generale Vito Nunziante (quale Capo
militare delle Calabrie) si precipitò incredulo da Monteleone, dove si trovava,
a Pizzo e quando si sincerò dell’identità del prigioniero, usò nei suoi
confronti tutti i riguardi dovuti ad un uomo d’altissimo rango. Ferdinando IV,
da Napoli, nominò una Commissione Militare competente a giudicare Gioacchino,
composta da sette giudici e presieduta dal fedelissimo
Nunziante,
a cui il re aveva ordinato di applicare la sentenza di morte – ironia della
sorte! – in base al Codice Penale promulgato dallo stesso Murat che prevedeva la
massima pena per chi si fosse reso autore di atti rivoluzionari; e di concedere
al condannato soltanto una mezzora di tempo per ricevere i conforti religiosi.
Nell’ascoltare la condanna capitale Gioacchino non si scompose. Chiese di poter
scrivere in francese l’ultima lettera alla moglie e ai figli, che consegnò a
Nunziante in una
busta con dentro alcune ciocche dei suoi capelli. Volle
confessarsi e comunicarsi, prima di affrontare il plotone di esecuzione che
l’attendeva nel cortile del Castello.Affrontò la morte eroicamente. Non volle
essere bendato e pregò i soldati di salvare la faccia e mirare al cuore. Erano
le 21 del 13 Ottobre 1815 quando il crepitare dei moschetti pose fine, a 48
anni, alla vita di un personaggio così grande e sfortunato, per il quale vale
quanto sinteticamente ebbe a dire il Conte Agar di Mosbourg: fu un uomo che
“seppe vincere, seppe regnare, seppe morire”. Fu sepolto nella bella Chiesa di
San Giorgio, che 5 anni prima aveva fatto edificare, ma dentro una fossa comune.
E l’atto di morte venne fatto firmare, quali testimoni, da due facchini
analfabeti che apposero un segno di croce.
SBARCO, CATTURA, PROCESSO E FUCILAZIONE DI RE GIOACCHINO MURAT NELLA TRADIZIONE
POPOLARE NAPITINA
Si
vede veleggiare al largo una goletta a vela e come si avvicina alla spiaggia -
porticciolo della Marina di Pizzo, qualcuno dallo <<Spunduni>>, vedendo fermento
ed animazione chiama a se qualche persona per capire ciò che alla Marina stava
accadendo. A seguito di ciò tante altre persone si affacciano allo
Spunduni per curiosare mentre altri bambini per vedere meglio di che trattasi
vanno a vedere dalla Piazza dei Castello.
Il
misfatto e la tragedia si compiono, si può dire, sulla nave, dove il Cap.
Barbarà (Comandante e responsabile di tutta la spedizione in mare) chiede al Re
di scendere a terra con il suo passaporto per aver più credito e forse la
possibilità di poterlo meglio tradire.
Il
Re non è tanto propenso a questo e viene fuori una furibonda lite, alla fine
della quale Murat decide di scendere personalmente a terra e chiedere ciò di cui
ha bisogno.
<<Tanto, dice, il bravo popolo calabrese mi ama>>.
Presagendo, però che potrebbe imbattersi in qualche scorribanda da parte di
qualcuno della popolazione ostile ai francesi, ordina al comandante di stare il
più vicino possibile alla riva, dove in caso di necessità, sarebbe stato a
portata di mano per una eventuale ed improvvisa fuga.
E’
una bella Domenica dl Ottobre e la Piazza di Pizzo pullula di gente, per lo
svolgimento del mercato che abitualmente si faceva in quel giorno.
I
passeggeri o viaggiatori del veliero scendono a terra in due o più volte con
una scialuppa. 
Scende per primo,
tutto impettito ed in alta uniforme
G. Murat
seguito dal suo fedele cameriere e da tutto il seguito composto da una trentina
di persone tutte in divisa essendo ufficiali, sottufficiali ed uomini in armi.
Si
compone un piccolo drappello e dalla spiaggia della Marina si avvia verso
Pizzo percorrendo la Via della Chiesa che è piena di persone affacciate ai
balconi e che in mezzo alla strada fanno ala al corteo incuriosite dal frastuono
che la gente e tanti bambini fanno al seguito del passaggio dello stesso.
Come
il corteo arriva in prossimità della Via Marcello Salomone, lasciato Corso
Umberto, lo Spunduni è gremito di gente che incuriosita è tutta affacciata alle
ringhiere per curiosare.
Arrivato in Piazza il corteo si compone e si schiera con Gioacchino al centro,
il cameriere Charles alla sua sinistra ed il Generale Franceschetti alla sua
destra.
Ancora la folla incuriosita non è a conoscenza della identità delle persone che
costituiscono questo drappello. Suonano le campane e la gente inizia a lasciare
la Piazza per recarsi in
Chiesa
per la Messa domenicale. In piazza vi era anche una piccola pattuglia di soldati
borbonici anch’essi in attesa di andare in Chiesa.
Dal
seguito di Murat considerato lo stupore e la curiosità con cui venivano
guardati, si eleva un grido:
<<
Viva il re Gioacchino!>>
<<
Viva il Re!>>
Rispondono dallo stesso corteo.
Ma
dalla popolazione che gremiva la piazza vi è quasi indifferenza e nessuna
partecipazione; anzi la gente che prima sembrava incuriosita incomincia ad
allontanarsi imitata anche da coloro che avevano esposto le loro mercanzie.
Notata tale indifferenza il Re dice:
<<
Andiamo a Monteleone là troveremo
sicuramente
dei cavalli!>>.
Si
avviano cosi tutti verso la Salita dei Morti con poca gente per la strada e
tanta che guarda furtiva dietro le finestre e gli usci delle porte.
Il
corteo arriva alla fine della Pineta ( sotto la cabina elettrica) e si ferma per
riposarsi un pò prima dl proseguire per Monteleone.
Arriva, avvisato da qualcuno del luogo, il Capitano G. Trentacapilli, in licenza
a Pizzo suo paese natale. E’ insieme con il fratello Raffaele ed i soldati della
guarnigione del Castello, seguiti da popolani armati di pali di legno e
forconi. Vuole sincerarsi degli eventi e vedere di che trattasi considerato il
grande fermento trovato lungo le strade.
Vista quella gente in uniforme si para loro davanti e li apostrofa chiedendo chi
fossero e Gioacchino gli risponde:
<<
Generale non conoscete Il vostro Re?>>
Il
Capitano Trentacapilli con immediatezza e spavalderia risponde:
<<Non vi conosco. Il mio Re è Ferdinando!>>
A
quell’affronto fatto al suo Re il Gen. Franceschetti estrae la pistola pronto a
sparare al Trentacapilli, ma il Re lo ferma perché non vuole spargimento di
sangue. Murat cerca di spiegare le ragioni del suo sbarco nel modo più dignitoso
possibile al Trentacapilli, ma da questi riceve solo ed esclusivamente
maldicenze ed ingiurie tanto che alla fine non potendolo convincere in alcun
modo ordina ai suoi uomini di darsi alla fuga presso la Marina dove pensa che
vi sia la nave ad aspettarli. La nave era si alla Marina ma ben lontana
dall’essere raggiunta.
Nella fuga inseguiti dai soldati borbonici a colpi di fucile parecchi uomini di
Murat rimangono feriti ed in seguito fatti prigionieri.
Arrivati alla Marina di Pizzo e constatato che la nave non è raggiungibile,
Murat ed i suoi uomini cercano invano di varare una grossa barca arenata sulla
spiaggia, perché nel frattempo sono stati circondati da gente del luogo che con
fare minaccioso li voleva catturare. In loro difesa Pasquale Greco uomo robusto
ed ardimentoso, riesce a tenerli a bada fino al sopraggiungere del Trentacapilli
e degli uomini della guarnigione del castello.
Dalla lite si passa ai fatti ed anche alle pistole tanto che oltre ad avere la
peggio il seguito di Murat lascia a terra cadavere un suo ufficiale. Lo steso
Murat viene pestato e quasi spogliato dalle sue vesti ridotte a brandelli ed una
volta immobilizzato assieme ad i suoi uomini, sotto scorta, viene condotto al
Castello. Al suo passaggio tanta gente in mezzo alle strade lo insulta e lo
schernisce mentre altri lo guardano con pietosa compassione vedendolo ridotto in
quel modo, sicuramente non confacente per un Re. La storia continua al Castello
con la venuta del Duca dell’Infantado con i suoi servi che portarono vestiti e
vettovaglie per i prigionieri, prosegue con la venuta del Generale Nunziante a
cavallo con il seguito, delle staffette che a cavallo vanno e vengono da e per
il Castello, degli Ufficiali che costituiscono la Corte Marziale, del Canonico
Masdea per la confessione e dei vastasi per il trasporto della salma dopo la
fucilazione presso la Chiesa di San Giorgio.
Lettera di Murat a Carolina Bonaparte
«Cara Carolina del mio
cuore,
l’ora fatale è arrivata, morirò con l’ultimo dei
supplizi, fra un’ora tu non avrai più marito e i
nostri figli non avranno più padre. Ricordatevi
di me e tenetemi sempre nella vostra
memoria;
Muoio innocente e la vita mi è tolta da una
sentenza ingiusta.
Addio mio Achille; Addio mia Letizia. Addio mio
Luciano; Addio mia Luisa.
Mostratevi degni di me; vi lascio in una terra e
in reame pieno di miei nemici; mostratevi
superiori alle avversità e ricordatevi di non
credervi più di quanto siete, pensando a ciò che
siete stati.
Addio, vi benedico; Non maledite mai la mia
memoria; ricordatevi che il più grande dolore
che provo nel mio supplizio è di morire lontano
dai miei figli, da mia moglie e di non avere
nessun amico che possa chiudermi gli occhi.
Addio, mia Carolina, addio figli miei; ricevete
la benedizione eterna, le mie calde lacrime ed i
miei ultimi baci.
Addio, Addio. Non dimenticate il vostro infelice
padre!
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Pizzo, li 13 ottobre 1815
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Joachim Murat»
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