INSEDIAMENTI RUPESTRI E PICCOLE ABBAZIE BASILIANE IN CALABRIA

 

I monaci di rito greco che nel periodo della dominazione bizantina emigrarono nell’Italia Meridionale, sfuggendo i pericoli e le persecuzioni della terra di origine, trapiantarono soprattutto in Calabria, i germi fecondi di una civiltà rinnovatrice, che andò maturandosi nei secoli, sia pure attraverso contrasti violenti e conflitti silenziosi.

Come già abbiamo osservato nella disamina storica dei capitoli precedenti,  i monaci, ogni qualvolta, in circostanze particolarmente critiche, furono costretti ad allontanarsi dalle province orientali dell’impero di Bisanzio, si diressero verso le regioni dell’Italia Meridionale, dove, fra le remote, intricate asperità geologiche, potevano occultarsi e vivere in ascetico raccoglimento, lontani dagli echi minacciosi delle guerre arabe, degli editti imperiali iconoclasti e degli eccessi della « monacomania »‘

La loro vita itinerante, che si alternava a periodi di ritiro eremitico, arricchiva la loro cultura in ogni campo, compreso quello geografico: ciò spiega le scelte razionali ed oculate dei territori, dove stabilire le loro dimore .

Oltre alla natura geologica dei luoghi, essi tenevano in gran conto anche la situazione politica e le condizioni etniche, in senso morale e religioso, delle popolazioni presso le quali cercavano rifugio: era infatti ovunque nota la salda fede ortodossa dei Calabresi, dimostrata in tutte le occasioni di divergenze e di conflitti ideologici, sorti in seno alla Chiesa .

Questo particolare aspetto della Calabria doveva essere ben conosciuto dai monaci, così come erano conosciute le caratteri­stiche orografiche, addirittura la natura litologica delle regioni in cui avrebbero scavato le loro tipiche strutture rupestri.

E’ addirittura sorprendente infatti l’analogia paesaggistica e mineralogica fra le regioni tufacee, della Puglia della Basilicata, e quelle caratteristiche delle valli della Cappadocia, dove si insediò, fin dai tempi di S. Basilio da Cesarea, il più importante centro monastico dell’epoca .

Alle prime manifestazioni dell’espansionismo arabo, che ebbe come obiettivo le province orientali dell’impero bizantino, già i monaci della Siria, della Palestina, dell’Africa e della Cappadocia, giunsero in una prima ondata migratoria, nell’Italia Meridionale, sparpagliandosi in tutto il territorio, soprattutto in Sicilia .

Alcuni di essi giunsero fino a Roma ed oltre, diffondendo lo stile della loro arte pittorica iconografica .

La terra però che dovette sembrare più ospitale, special­mente a quei fuggiaschi che provenivano dalla Cappadocia , attraverso il canale di Otranto, fu sicuramente la Puglia e la vicina Basilicata.

In queste regioni, essi, favoriti dalla naturale conformazione orografica e geologica dei luoghi, riuscirono quasi a riprodurre il paesaggio trogloditico e rupestre delle loro remote valli anatoliche .

Con l’operosità solerte e costruttiva, che contraddistingueva la vita del monaco greco, essi, nell’interno delle pareti tufacee, morbide ed accoglienti, scavarono chiesette, basiliche sotterranee e luoghi di ritiro di carattere anacoretico, esicastico o cenobitico .

Presso questi suggestivi luoghi di culto, dovettero addensarsi delle piccole comunità popolari a livello agricolo di cui i monaci non rappresentavano solo la guida religiosa e spirituale, ma l’epicentro intorno a cui gravitava tutta l’organizzazione sociale della collettività, nei suoi vari aspetti: da quello culturale a quello agricolo.

« Lo studio di quella che ormai chiameremo anche noi civiltà rupestre si estende a considerare nuovi aspetti: ripopolamento, colonizzazione, rimessa a coltura di terre, in relazione all’evolversi delle condizioni ambientali e degli sviluppi della politica amministrativa ed ecclesiastica dell’impero bizantino »

Alla polemica sorta fra studiosi, sulle origini autoctone o esotiche, delle manifestazioni artistiche ed architettoniche, racchiuse nell’interno delle cripte dell’Italia Meridionale, partecipava vivamente il Diehl, che ammetteva l’esistenza di un certo filone artistico di provenienza Occidentale, pur riconoscendo il carattere incontestabilmente orientale delle pitture iconografiche rupestri, eseguite in Calabria, in Basilicata e in terra d’Otranto, dall’alto Medioevo al periodo Normanno .

Il Bertoux sulla scorta di una nutrita documentazione, inseriva il fenomeno in un’area più ampia mettendolo in relazione con la « vasta trama dei fatti umani e concludeva con l’accettare la tesi panmonastica », cioè la netta prevalenza dell’influsso di Bisanzio su queste manifestazioni artistiche popolari.

Ma conclusioni più interessanti e più evidenti raggiunse lo studio impegnato di Alba Medea ‘4che, attraverso un attento esame storico ed artistico, eseguito su numerose chiese rupestri, collegò il fenomeno con varie ondate migratorie di monaci orientali, verificatesi dal sec. VII al sec. X.

Ciò non esclude l’influenza di una scuola artistica latina, come rivelano le scritture bilingui presenti spesso in una stessa cripta

Altra testimonianza inconfutabile sugli insediamenti monastici e sulla diffusione della loro civiltà rupestre, ci viene offerta dalla città di Matera, dove l’arido desolante paesaggio dei «Sassi », nasconde il sigillo inconfondibile della presenza dei monaci greci.

Sulle pendici di una gravina aspra e tufacea, sorgono ancora quartieri periferici di carattere rupestre e semirupestre sormontati dal Sasso Barisano e dal Sasso Caveoso.

 Sulla cima scoscesa di quest’ultimo, una croce domina l’intero paesaggio e segna la presenza di una delle chiesette, dedicata a « S. Maria de Idris ».

Il nome rievoca un’antica leggenda di miseria, di carestia e di siccità: il torrente Gravina era in secca da lungo tempo ed i monaci invocavano l’acqua dal Signore, con preghiere, con voti e con sacrifici.

Arrivarono perfino a far penitenza, procedendo carponi e lambendo con la lingua il suolo arido e secco. E l’acqua arrivò: una pioggia fitta cadde a rovesci per giorni e giorni gonfiando le acque del torrente: i voti dei monaci erano stati esauditi ed essi, come segno di gratitudine, dedicarono alla « Vergine de Idris »  la chiesetta scavata nell’interno della roccia, che sormonta la grande struttura del Sasso Caveoso.

Il ricordo della leggenda, che ancora oggi è narrata con appassionata fede ai visitatori del luogo, rivela la traccia profonda ed indelebile lasciata dai monaci greci durante i loro secoli di permanenza.

Quelle grotte indubbiamente furono abitate già in tempi preistorici, dalle tribù del Neolitico ed offrirono, anche in epoche meno remote, una naturale ospitalità agli abitanti del luogo, la cui civiltà, sebbene progredita non rifiutava l’« habitus » ancestrale del vivere in grotta, dove il tufo secco proteggeva dal caldo o dal freddo eccessivo.

Però la permanenza dei monaci conferì al paesaggio una particolare incancellabile impronta di civiltà, documentata dagli  esemplari molteplici delle strutture architettoniche e dalle decorazioni pittoriche, i cui influssi stilistici, ci consentono di ricostruire cinque secoli di storia.

Nonostante la datazione piuttosto incerta di alcune cappelle, noi, traendo qualche interessante spunto dallo studio compiuto da A. Medea sulle tracce del Diehl e del Bertaux, riteniamo che anche la civiltà rupestre della Murgia Materana sia il prodotto di varie ondate immigratorie di monaci orientali  relative a gravi momenti storici, che sollecitarono l’esodo dei religiosi dalla terra di origine, verso l’Italia Meridionale.

In base alle conclusioni tratte dal nostro studio storico condotto nel precedente capitolo, ci sembra evidente che la prima immigrazione, si debba collegare con la genesi dell’espansionismo arabo e con l’invasione islamita delle province orientali dell’impero.

La seconda immigrazione, la più numerosa, e la più importante, fu provocata dalla iconoclastia e dalla monacomachia, che resero impossibile la sopravvivenza delle comunità monastiche nel centro dell’impero bizantino.

La terza ondata fu conseguente all’occupazione araba della Sicilia, che provocò un notevole riflusso del monachesimo, dall’isola verso le regioni meridionali della penisola italiana.

Se in terra d’Otranto e nei Sassi di Matera il passaggio di questa civiltà rimase profondamente inciso nelle manifestazioni artistiche ed architettoniche, in Calabria sotto questo aspetto le tracce sono meno evidenti né presentano caratteri tali che con evoluzione cronologica.

L’esplorazione del suolo calabrese, in vero, per la sua stessa natura geologica, presenta difficoltà insormontabili, che non escludono la possibile esistenza di una vera civiltà rupestre che non è ancora venuta alla luce.

Inoltre molti fattori storici, geografici e sociali possono aver cancellato le manifestazioni pittoriche trogloditiche più evidenti e più espressive, sulla permanenza di comunità monastiche nella regione.

Le continue scorrerie arabe e gli insediamenti saraceni rendevano i monaci calabresi molto cauti nelle illustrazioni iconografiche, che suscitavano particolare avversione fra gli islamiti iconoclasti e implacabili persecutori dei monaci stessi ~.

A questo si aggiunge la frequenza di terremoti, di inondazioni e di franamenti del suolo che hanno sempre colpito con particolare violenza la Calabria  apportando gravissimi danni soprattutto al tipo di roccia tufacea in cui i monaci solevano scavare chiese e monasteri.

Lo stesso brigantaggio in tempi posteriori, si annidò spesso nelle grotte desertiche dei romitori o li usò come nascondigli, prigioni o ricettacoli del suo bottino.

Nonostante l’influenza negativa di tutti questi elementi, le  tracce artistiche ed architettoniche sopravvivono ancora, anche se non presentano una impronta decisiva e significativa sulla civiltà culturale fiorita in Calabria, in contrasto con l’oscurantismo politico della dominazione bizantina. Dalle pendici solitarie e scoscese del Monte Pollino, fino al promontorio di Capo d’Armi, l’intera regione è tuttora costellata dalle tracce di grange, romitori e cenobi, testimonianze di un particolare modello di vita sociale che ebbe come protagonisti i monaci basiliani.

Osserva il Nucera, acuto studioso dei problemi storici calabresi « Sebbene sia difficile determinarne il numero approssimativo, tuttavia si contavano 1500 monasteri nel Bruzio e soltanto quelli noti. Dei non noti restano i toponimi e i ruderi. Noi possiamo seguire linguisticamente queste comunità monastiche non soltanto con la toponomastica ma anche con i dati fornitici dagli elementi linguistici greci e siculi, che il filologo Rohlfs ha raccolto, e un po’ con gli elementi archeologici che affiorano ovunque ».

In realtà non è possibile stabilire nemmeno il numero approssimativo dei conventi basiliani calabresi di epoca bizantina anche se tutti gli studiosi, che si interessano dell’argomento, riconoscono che il loro numero fu straordinariamente elevato .

Osserva ancora il medico ed umanista F. Nucera « Non vi fu paese della Calabria, anche insignificante, che non abbia avuto una o più comunità monastiche: sia pure di piccole proporzioni, disposti un po’ dovunque, nei boschi, negli anfratti, nelle valli e sulle rupi ove ci fosse stata dell’acqua sorgiva e una radura »“.

La prima condizione necessaria infatti, per gli insediamenti monastici era la presenza dell’acqua. Nella vita stessa di S. Nilo, si ricorda in proposito un particolare: il Santo, dovendo nascon­dersi per l’arrivo dei Saraceni, riempì una grossa anfora di acqua e si avviò verso il suo rifugio.

Questa tradizionale esigenza era tramandata ai monaci da incancellabili ricordi di lunghe persecuzioni, con orribili assedi; di digiuni durati oltre il limite della resistenza umana, mentre il tormento della sete uccideva i corpi disidratandoli fino alla follia.

Nella stessa Cappadocia, perfino le città sotterranee scavate sulle falde acquifere, sono profonde fino al livello della falda stessa, per assicurare sempre l’acqua alle popolazioni ivi asserragliate senza limiti di tempo.

Si può dire che in ogni luogo della Calabria, dovunque l’erta rocciosa dell’arenaria o del tufo sovrasta ad un corso d’acqua o dà vita a una sorgente, ivi immancabilmente si trovano i segni inconfondibili degli antichi insediamenti trogloditici monastici.

Tutt’intorno si stendono fertili radure in cui la vite e l’olivo, che tuttora sussistono, si alternavano al gelso, la cui produzione in Calabria fu uno degli aspetti più importanti del rinnovamento agricolo ed economico, operato dai monaci basiliani .

Un’altra importante manifestazione degli insediamenti monastici in Calabria è data dalla presenza, assolutamente inesplorata di profondi cunicoli, scavati fino a profondità inaccessibili. Essi vengono segnalati in più punti della regione, in corrispondenza dei luoghi in cui si addensarono i monasteri rupestri.

Sono antiche opere di scavo che ricordano sia pure in forma rudimentale, le profonde cavità ipogee della Cappadocia aperte dai monaci, fino ad una profondità di Otto piani.

Esse offrivano asilo e rifugio alle comunità cristiane ed alla popolazione esposte al pericolo delle persecuzioni religiose e delle feroci scorrerie arabe.

Anche in Calabria i monaci, esperti in questo genere di strutture sotterranee, dovettero forse insegnare alla popolazione il modo più efficace per potersi sottrarre alla furia dei violenti e frequenti assalti saraceni. Proprio nel cuore di queste impervie misteriose voragini si nasconde forse la vera storia della Calabria medievale .

Fonte: Felicia Lacava Riparo <<Dominazione  Bizantina e Civiltà Basiliana nella Calabria prenormanna>> Edizioni PARALLELO 38 di Reggio Calabria.